LA MOSTRA | GLI ARTISTI | CITTÀ DI TRANI | PARTNERS | INFO
GIOVANNI ALBANESE (Bari, 1959. Vive e lavora a Roma).
Titolare della Cattedra di Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Foggia, opera in un ex garage nell’antico quartiere di San Lorenzo a Roma.
Nel 2002 ha vinto il premio d’arte contemporanea “Pino Pascali”
Artista poliedrico ed originale, ha messo la sua arte a servizio della fantasia.
Recentemente ha firmato la regia di “A.A.A. Achille”, film scritto con Vincenzo Cerami, con musiche di Nicola Piovani (Achille, orfano di padre, è un ragazzino balbuziente.
La sua famiglia decide di mandarlo in una clinica per risolvere il suo problema.
Qui Achille incontrerà strani personaggi tutti affetti da problemi del linguaggio).
Ha realizzato scenografie cinematografiche (Giovanni Veronesi, “Silenzio si nasce”), teatrali (Antonio Albanese e Michele Serra, “Giù al Nord”) e televisive (Syusy Blady e Patrizio Roversi, “Condominio mediterraneo”, “Libero” di T. Mammucari).
La sua produzione è caratterizzata dalla creazione di strampalati marchingegni ” felice mescolanza di macchine celibi di duchampiana memoria, di assemblaggi alla Nam June Paik, fino al gusto neoclassico e nello stesso tempo mediterraneo di Pascali” (ABO) il cui fine ultimo è il gioco, lo spettacolo, l’emozione, tutte visioni nate da vecchi oggetti trovati per strada:
La “Macchina per ascoltare il vento” del 1993
(un basamento, due grandi coni di ottone, due enormi cuffie di vetro orientò il tutto verso il cretto di Burri, che copre come un sudario i resti della città di Gibellina distrutta dal terremoto, macchina con cui l’aria si cattura davvero) allegorie come “Spazio aperto”, una mamma robot che spinge un obsoleto sidecar o”A mamma”, fantasma-robot della madre mediterranea ossessiva e accudente; “Salto di qualità”, un frigo che recita le tabelline e vorrebbe diventare un computer; “Pippo acrobata”, un pupazzo che, su un trapezio, volteggia a tempo di “Volare”.
“Shampoo ’70”, un intero e desueto negozio di parrucchiere con altoparlanti che trasmettono la radiocronaca della morte di Pasolini e testimonianze estemporanee, dai caschi arrivano canzonette rigorosamente d’epoca.
Ironia sulla comunicazione di massa.
Albanese manipola la luce elettrica fino a farle assumere le forme del vivere quotidiano:
“Coperti di nugoli di piccole fiammelle (che simulano la luce fioca delle candele votive) oggetti della quotidianità come sedie, tavoli, scale, altalene, persino un pianoforte, pulsano ininterrottamente, con ritmi serrati e pressoché sempre uguali….immagine dell’energia irrefrenabile della vita, del suo correre a perdifiato verso il futuro, ma anche della consapevolezza del trascorrere del tempo e della inevitabile contiguità tra la vita e la morte, che nell’oscillazione di un’altalena in fiamme, inconsueto imperfetto metronomo, trova perfetta giocosa e al tempo stesso malinconica espressione”. (Lia de Venere)
Ogni opera è per l’artista, che ha esposto le sue creazioni in tutta Europa, un passo avanti verso la realizzazione del suo sogno di adulto, come spesso ripete, è quella di diventare bambino.
OLIVO BARBIERI (Carpi, 1954.Vive e lavora a Carpi)
Compiuti gli studi alla Facoltà di Pedagogia e al D.A.M.S. di Bologna, dal 1971 comincia la sua attività di fotografo.
Si dedica alla ricerca fotografica sotto l’effetto della luce artificiale indagando il paesaggio notturno, l’architettura, il tempo.
Espone in Italia e all’estero dal 1978.
Nel 2003 è l’unico italiano invitato alla Triennale di Fotografia di NEW YORK.
Nelle sue stampe fotografiche non c’è nulla di digitale, sono eseguite con sistemi tradizionali sebbene l’effetto visivo appare spesso innaturale.
Per la fotografia di Barbieri si può per assurdo parlare di “verità virtuali” e i “luoghi” da lui ritratti sono stati definiti “spaesaggi”,
come le visioni notturne delle città italiane, ritratte da nord a sud.
Nelle sue foto si colgono la simultaneità, la sovrapposizione di luoghi, di tempi e di oggetti.
La lettura delle immagini è perciò a più livelli, verticali e orizzontali, grazie all’uso di uno strumento chiamato “banco ottico”, che rende possibile una messa a fuoco selettiva: è l’artista che decide qual è il punto di massima lettura dell’immagine.
L’immagine ottenuta non è né nitida né del tutto sfocata e permette di cogliere determinati particolari che spesso sfuggono ad una percezione superficiale della realtà.
Negli ultimi anni la ricerca di Olivo Barbieri si sviluppa su due filoni paralleli: il racconto della città contemporanea studiata nei luoghi ad intensa trasformazione (Egitto, Giappone, India , Tibet e Cina – “Notsofarest” è uno dei cicli più attuali e di maggior successo- e una serie di approfondimenti sugli spazi di grande attualità mediatica, quali gli stadi di calcio e i luoghi della giustizia -gli Stadi, del 1999, ci mostrano la loro costruzione e funzionamento come giganteschi videogiochi in grado di scatenare sulla tifoseria calcistica stati di esaltazione ipnotica;
i Tribunali, del 2000, aule e aule bunker dei Palazzi di Giustizia, sono visti come un nuovo soggetto ipermediatizzato, la cui forma viene sottilmente indagata
in rapporto al contenuto del suo esercizio. In mostra, una foto che ritrae Shanghai del ciclo NOTSOFAREST,
in cui coglie il repentino cambiamento delle metropoli cinesi e gli effetti della globalizzazione,
che ne danno un’immagine incredibile e come egli afferma, inquietante, perchè “di quello che sarebbe accaduto non se ne trovava traccia sui giornali e tv…“
MATTEO BASILÈ (Roma, 1974. Vive e lavora a Roma)
Il nome Basilè lo assume da Basilio, capostipite dei Cascella, famiglia di affermati pittori, scultori e ceramisti.
Partito dal graffitismo e dalla fotografia, nel ’95 ha iniziato, in piena cultura Hip-hop, con la Street Art e fuori dai circuiti ufficiali, nei Centri Sociali, nei Raves, sperimentando materiali nuovi per questa disciplina: fogli di alluminio montati per strada per “graffitarci” sopra.
Allarga il campo d’azione creativa alla fotografia sperimentale e al cyberspazio di Internet e, ispirandosi al ripetersi dei vagoni di un treno, crea la prima installazione interattiva: vetrine che, appena sfiorate, si riempiono di fumo, generando suggestivi effetti oleografici.
Castelvecchi ne fa un catalogo su cui campeggia a grandi caratteri il nome “Basilè”.
Nello stesso anno forma un gruppo, “Cromosoma”, con Rafael Pareja.Molina: per due anni fanno esperienze e ricerche parallele.
Basilè mantiene la ricerca prettamente digitale.
Nel ’96, lavorando con un programmatore stravagante, realizza un CD-Rom interattivo nel quale presenta i suoi lavori, precorrendo programmi per pc inaugurati molto più tardi.
Nasce così l’idea di mettere le fotografie sullo schermo grazie allo scanner (attualmente si avvale della fotocamera digitale che permette di trasferire l’immagine direttamente), ritoccarle, per poi stamparle con le prime stampanti “plotter” (oggi stampate su lastre di alluminio).
“Questi “plotter painting” sono popolati da volti, simboli orientaleggianti, marchi, loghi e segni.
Insomma tutti frammenti di vita quotidiana, di viaggi, di esperienze, uniti estemporaneamente nella stessa immagine grazie ai software.” (M.B.)
I simboli “tatuati” sulle sue creature definiscono l’identità dell’uomo e la sua storia personale.
Sono le nuove tags (il termine deriva dalla Graffiti Art e indica la firma in codice degli artisti che scrivono e disegnano sui muri).
Soprattutto il simbolo orientale del cuore sacro è diventato un suo “marchio” artistico.
“Quando un volto mi interessa, lo fermo con la macchina fotografica digitale.
Non necessariamente in uno studio fotografico: spesso i lavori sono senza ambiente, senza rapporto con lo spazio o con il tempo. I ritratti sono il cuore espressivo della mia opera.
Scelgo l’inquadratura ravvicinata alla ricerca di emozioni e pensieri, storie e strutture mentali, vissuto e sogno.” (M.B.).
Definito “pittore di icone” (G. Marziale) per l’inaugurazione di questa moderna ritrattistica, e accostato per la pulizia formale e l’equilibrio a Piero della Francesca, nell’ultima serie di lavori Corsenving -lightbox e stampe digitali su alluminio- recupera gli ideali di bellezza e bruttezza attraverso la resa di una percezione “altra”, dà vita ad una ritrattistica anonima e dalle proporzioni equilibrate, entità inquietanti e affascinanti che appaiono immerse nel nulla,
avvolte da sfumature “gassose”, dai colori freddi e di derivazione digitale.
Crea impercettibili imperfezioni, sottolineando l’intervento umano, “sfregiando” le immagini con graffi virtuali.
Vincitore nel 2002 della borsa di studio del Ministero degli Esteri per approfondire le sue ricerche a New York, è considerato l’iniziatore e continuatore di un graffitismo ipertecnologico.
BETTY BEE (Napoli, 1963. Vive e lavora a Napoli)
Elisabetta Leonetti (“Betty bee queen” è l'”ape regina”) è una performer-artista : è lei stessa la sua opera principale, perché privilegia il “progetto esistenziale” all’ “oggetto estetico”.
Anche la sua produzione è di stampo autobiografico, sempre provocatorio ed eccessivo, e spazia da fotografie documentaristiche, video, installazioni a realizzazioni grafiche e pittoriche.
Il vitalismo e la spontaneità, accompagnate da una spiccata teatralità, mutuata dalla sua estrazione popolare e dalla spiccata “napoleitaneità” , caratterizzano ogni intervento, “inteso come qualcosa che va vissuto sulla propria pelle ” ( L. Beatrice, C.Perrella).
“It’s territorial game” (1992), la prima immagine con cui è stata riconosciuta artista, è infatti il disegno di un vulcano fatto con un kajal sul proprio seno.
Le metafore sessuali sono frequenti nell’opera di Betty Bee, mai frenate e giocate sulla duplicità di situazioni ambigue (una delle più note è il suo “travestimento” da travestito) o sugli stereotipi, specie femminili (la sposa meridionale, la call-girl), “Amo i colori…sono proprio i colori che riporto incessantemente nei miei lavori.
Sono proprio loro a darmi l’entusiasmo per vivere in un ambiente grigio e devastante.
In essi c’è tutta la mia vita come io avrei voluto” (B.B.): suoi lavori pittorici sono solari, rivelano un segno elementare e addirittura infantile e sono realizzati mescolando ai colori a materiali tradizionalmente femminili (cosmetici, passamanerie, farina, zucchero) su tele bianche, carte, cartoni, compensati;
Più strettamente documentaristici e legati a reali episodi vissuti sono i video.
“Ci sono svariate forme perché l’arte si rappresenti; per me quella fondamentale è l’autenticità”(B.B.): realizza così “Mappacubo”, un fumetto con gli episodi, anche drammatici e scabrosi, della sua giovane esistenza; “To the happy few” (1992-93) raccolta di istantanee scattate ai propri amici e attaccate al muro;
“Leonetti Luigi classe 1920” (1997) è la candid-camera realizzata per la sua prima personale a Milano, con la quale, bilanciando crudeltà e autopenitenza, risolve il difficile rapporto con l’anziano padre.
Nel 1999 una delle sue testimonianze più coraggiose e profonde:
“Betty Bee. Sopravvivere d’arte” – “Ciao bucchi” di Didi Gnocchi, un docomentario che le è valso il primo premio al Torino Film Festival.
È una full immersion al limite dell’incredibile, un racconto incalzante di ricordi uniti a stralci di performances, esperienze di lavoro, rivelazioni, confessioni e momenti intimi, dal suo lavoro all’accademia di BB.AA. di Napoli al rapporto amorevole con le sue due figlie.
CHRISTIAN CALIANDRO (Mottola,1979. Vive e lavora a Siena)
Artista precoce e studente di Storia dell’arte alla Scuola Normale Superiore, vince nel 1998 il primo premio alla Biennale dei giovani artisti di Pisa.
Nel 1999 disegna le scenografie e i quadri del cortometraggio “L’artista” della regista Susanna ; a Roma lavora come assistente del pittore Renato Mambor .
In occasione della Biennale è a Venezia con una mostra di stampe digitali dal titolo “Just married”
in cui la Hollywood dei telefoni bianchi dialoga con Mottola, dando vita ad un universo plastificato e schizofrenico, in cui due mondi si scontrano senza mai incontrarsi.
Nasce così l’idea di montare frammenti eterogenei.
E nel 1999 comincia a dipingere dittici 50×50, tele accostate e caratterizzate da stili diversi .
Dal 2001 alle tecniche manuali preferisce il digitale.
Realizza Conversation pieces in cui fa interagire fotogrammi di film degli anni ’60 e ’70 con immagini porno trattate con l’effetto kaleidoscope. Primo montaggio di immagini in movimento è “Senza titolo” (2003) in cui suddivide lo schermo in split-screen e accosta la scena-chiave di “American History X” (1998) alla sequenza finale di “Solaris” (1972).
Le due colonne sonore originali si sovrappongono, creandone una nuova.
L’idea di tutti i lavori è quella di conferire nuovo senso, attraverso il montaggio, ai frammenti preesistenti. Il risultato è un sistema illusorio (almeno in parte) e ‘semiautonomo’: infatti, sebbene le nuove ‘conversazioni’ funzionino indipendentemente dal contesto di provenienza, l’opera fa leva anche sul riconoscimento degli attori-icone, dei personaggi e delle situazioni narrative in cui essi erano calati prima del loro prelievo e riposizionamento.
Si tratta di un intervento sul cinema inteso sia come linguaggio regolato (costruzione, finzione)
sia come metafora del mondo.
Nell’opera in mostra “PLANETARIUM” (2003)
riunisce scene di Gioventù bruciata (N. Ray, 1955), 2001: odissea nello spazio (S. Kubrick, 1968),
Dark Star (J. Carpenter, 1974), Terremoto (M. Robson, 1975), Il sesto senso (M. Night Shyamalan, 1998) e mette in scena una visione dolcemente apocalittica.
Il concetto-guida suggerisce che esplorazione dell’universo e della personalità in ultima analisi coincidano.
I personaggi (Jim Stark di “Gioventù bruciata”, Cole del “Sesto Senso” e Bowman di “2001”) sono in fondo tre freak che stanno compiendo, in modi diversi, un doloroso ma straordinario percorso di formazione e di conoscenza.
FRANCESCO CARONE. (Siena, 1975. Vive e lavora a Siena)
Laureato all’Accademia di BB.AA. di Firenze, lavora con ogni media e tecnica, mantenendo sempre una componente manuale e una grande attenzione per l”estetica, unica chiave di lettura universale.
Le sue opere hanno un molteplice livello di lettura:uno superficiale e apparentemente semplice, addirittura pop e didascalico, cui si associano concetti più complessi e una serie di simbolismi sottili e letterari.
Colore dominante è il Verde: “rappresenta, meglio del rosso, l’ultima fase del processo alchemico ” (F.C.).
E’ infatti il colore della chimica, disciplina che -assieme all’alchimia- popola con forza il suo immaginario, ma anche il colore della mutazione (l’ossidazione del metallo è verde), della speranza (“il nuovo che avanza” è lo slogan di una sua recente installazione), della natura (i licheni con cui scrive sul muro della “green gallery” ) e il colore dell”anello di malachite che porta al dito.
La matematica (la poesia simbolica dell’imprevedibile abbinata al senso di rigore e di esattezza connaturata agli archetipi matematici), lo scherzo, il sacro, l’illusionismo (ammanta di un’aura divina la figura del grande Houdini), il mare e il tema del viaggio (sta tentando la lenta costruzione di una nave e delle sue strumentazioni per la navigazione) le scienze “esatte” e quelle “sbagliate”, la natura, le collezioni, la morale, la morte, il gioco della vita, viene tutto rivisto in una chiave magica, marchio del suo inconfondibile stile.
Nel suo delirio artistico da moderno “rosacroce” le sfide impossibili sono all’ordine del giorno: ha rubato da un ossario medievale il teschio da cui ha ricavato il calco traslucido al quale non rinuncia nelle sue installazioni ed utilizza osso umano per le sue “partite a scacchi” o “a biliardo”… con la morte.
E’ riuscito a ridurre a pochi minuti di durata il colossal Moby Dick ed ha provato, con un “centimetro” da sarta lungo venti metri, a prendere le misure alla facciata delle Papesse e di un alto edificio nel cuore di Napoli.
Ha assoldato un artificiere per descrivere minuziosamente come far saltare una galleria d’arte che lo ospitava.
Il libro dell’evoluzione di Darwin è trafitto da un pugnale e la parola evolution diventa revolution.
Un cannone parla in realtà di sperimentazioni fisico-geometriche e più che sparare cerca di raggiungere la quarta dimensione.
Un quadro elenca le formule chimiche di tutti gli esplosivi che si potrebbero fare in casa.
Sta lavorando ad un quadro di dimensioni spropositate, al suo terzo video ed alla costruzione di un’armeria.
“L’aura liturgica, le citazioni colte ed i continui rimandi semantici non impediscono alle installazioni di conservare una asciuttta freddezza clinica” (M. Tonelli).
“Misericordia, ovvero il I° teorema delle armi bianche” 2003 ottone nichelato, legno di cocobolo, osso umano.
Elemento della serie”La Scienza feroce”della quale fanno parte “Libro della rivoluzione” e “Giudizio e Creazione”
Misericordia era il nome di un piccolo coltello stretto e lungo Che, nell’antichità, i soldati della cavalleria pesante tenevano all’avambraccio per togliersi la vita (attraverso una finestrina che gli si apriva nell’elmo, all’altezza del collo) una volta caduti da cavallo ed impossibilitati ad alzarsi causa l’enorme pesantezza dell’armatura e prima che lo facesse il nemico in maniera più dolorosa e meno onorevole.
“Il mio coltello, come le armature medievali ha un uso impossibilitato.
La frase posta sopra sta a significare, redatta in forma di regola matematica, che più odi una persona e più che immagini che affonderesti in lui l’acciaio della tua arma, facendo si che tu, impugnandola per il manico ti avvicini fisicamente sempre più al tuo nemico.”(F.C.)
ALESSANDRO CIULLA (Palermo, 1976. Vive e lavora a Palermo)
Laureato in Decorazione all’Accademia di BB.AA con una tesi dedicata al trash, sposta la sua attenzione alla video arte e al corto:
ottiene il primo premio per la categoria “film documentario, vivere la periferia” a “Visionaria2000” di Siena con il film ZEN-Zero, girato nel degradato quartiere Zen di Palermo e si confronta con la periferia di una città del nord, Padova, costruendo il video racconto FUN-ghetto e ZENz’Ali.
Giocando con la parola ZEN inventa ezZENtrico e BenZENe e dedica all’universo infantile un’originale illustrazione di Pinocchio per l’iniziativa “2001 ItaliainGiappone”.
Partecipa con FABRICA di Oliviero Toscani al progetto Wanted Creativity del Workshop diretto dal video artista Andrej Zdravic I suoi corti, propriamente dei documentari, affrontano tematiche sociali, di vita di periferia, indigenza e povertà anche di valori, figlia del sistema economico capitalista apertamente contestato dall’artista.
Da temi generalisti, dalla periferia come luogo di tutti sposta oggi lo sguardo al proprio “angolo”, alla sfera domestica.
Il legame tra arte e vita è ricostruito attraverso suppellettili, gesti quotidiani, momenti di vita realmente vissuta, trasformati in piccole “epifanie del vivere”,
mediante inquadrature innaturali, apparentemente casuali, ravvicinate, distorte e l’uso di un’illuminazione artificiale in cui predominano tonalità calde.
Nei suoi cicli di corti è ossessionato dal tema del “lavapiatti” Benny e da un noto detersivo liquido: mattonelle anni ’70, un lavello colmo di stoviglie, detersivi e provviste d’acqua in bottigliette di plastica, sottile dettaglio che allude all’annoso problema siciliano.
In “Benny è svelto” – nel primo ciclo avvolto da una lunghissima serie di lampadine natalizie che accentua il senso di “assurdo” –
il colore veste l’immagine con i contrasti dei complementari, accompagnato dal gusto del racconto e dall’esaltazione del piccolo “gesto”.
L'”abitudine” diviene così momento speciale.
Il ciclo continua con “Benny è più fresco”, in mostra.
Gli effetti luministici artificiali trasfigurano il luogo ritratto ed il soggetto, creando tonalità tra il caldo e l’acido, che fanno dei suoi lavori
immagini glamour della semplicità del vivere.
E’ un’ibrida creatura che nasce nel 2000 tra Asti e Torino dall’incrocio tra Fabric’e Coniglio e Andrea raViola (il performer Donatello).
Si definiscono “una bottega rinascimentale nell’era digitale”, muovendosi ecletticamente tra web art e net art e contaminazioni tra pittura, cinema, teatro, musica.
Cominciano col progettare semplici “sceneggiature mobili”, e creano siti web come “mondi paralleli”, dove l’interfaccia invita l’utente a scoprire questo strano universo da esplorare, sempre legato ad un messaggio da comunicare.
È così che si affidano a metafore legate al contenuto del sito stesso.
Dalla collaborazione col gruppo elettronico dei Modho nasce il progetto “Dis.Soluzioni”: video di “arte povera”, realizzati semplicemente montando fotografie animate in flash, fino a riuscire a suscitare l’interesse di critica e pubblico da un lato raccogliendo un gran numero di recensioni, interviste, partecipazioni a trasmissioni televisive e a festival multimediali o cinematografici, dall’altro aprendo a un vasto pubblico i territori generalmente elitari della webart/net.art
specie con il primo ed ironico esperimento on line, “La Meditazione di Yolanda”, un sito interattivo realizzato a Barcellona con Macromedia Flash e Adobe Photoshop, che propone un insolito percorso di meditazione sui Sette Chakras attraverso suoni e immagini ipnotiche e sotto la guida di una maestra di Yoga virtuale.
Tra gli ultimi esperimenti, “Un’estate al Mare”, con musiche ispirate alle dive pop italiane, “Bertepolis”, un web movie dedicato a Loredana Bertè e il progetto multimediale “Recuperate Le Vostre Radici Quadrate”.
MARIA CRISTINA CRESPO (Roma, 1958. Vive e lavora a Roma)
Artista, pubblicista, illustratrice ed esperta di restauro, dopo aver studiato pittura, ha frequentato l’Istituto di Antropologia Culturale all’Università La Sapienza di Roma.
È il periodo del Ramo d’oro, della lettura dei miti, anche in chiave psicoanalitica e della ricerca relativa alle tradizioni popolari italiane e straniere, primitive e non, che approfondisce compiendo numerosi viaggi in Sudamerica e in oriente.
Laureatasi successivamente in Storia della Critica d’Arte e perfezionatasi in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, inaugura, nella sua produzione, il periodo “medievale”.
È dal 1986ch comincia così ad esporre in Italia, in Europa e negli Stati Uniti.
L’aspetto “sublime dell’arte e grottesco dell’opera” (Achille Bonito Oliva) dovuto a contaminazioni “tra cultura alta e bassa, affabulazione nordica e clima mediterraneo, grottesco e sublime” caratterizza i suoi “fantocci” polimaterici
secondo un gusto nel riempimento dello spazio vicino all’horror vacui barocco.
Ogni composizione sembra assumere la “frontalità del teatrino popolare”, un teatro dei pupi attualizzato in delicate marionette del presente con l’utilizzo delle piccole dimensioni, quasi “tascabili” , dal formato minimo di 20x30x15 a un massimo di 70x100x15 ; sono ex voto carichi di citazioni letterarie e storiche, allusioni al presente, ricordi di personaggi storici e familiari, miti e credenze.
Protagoniste soprattutto emblematiche o enigmatiche figure femminili, realizzate tridimensionalmente, che si affacciano dal piccolo palcoscenico dell’opera: la loro vita è cristallizzata negli onnicomprensivi box in legno, stucco, cartapesta, metalli, stoffa, carta stagnola, fiori finti, pizzo, bijoux, oggetti trovati, riciclati, fili di stoppa o di seta, polistirolo, sughero
accanto ad un’universo iconografico rubato alla tradizione nordica e a quella senese quattrocentesca, al settecento del Fragonard come al romanticismo più cupo di Boecklin, alla scuola romana del ‘900, contaminazioni riassunte in originali titoli “sublimi”.
Gruppo conosciutosi tra l’Italia e il Canada e fondato nel 1999 a Vienna da Heinrrich Nicholaus (Germania sett., quarant’anni), Dougal Graham (Canada, trenta) e Sawan Yawnghwe (Birmania, trenta), Dal 2002 Grham lascia il gruppo, che attualmente prevede l’inserimento di altri artisti non necessariamente pittori.
Stabilitosi sulle colline del Chianti, zona frequentata da ghiri, si ispira simbolicamente ai pigri roditori: il nome, marchio registrato, “sta per ghiro,sfaticato, morto di sonno, ma anche per animale dalle abitudini notturne. E’ un roditore cronicamente stanco ma iperattivo, istintivo, veloce.
Iperproduce carburante per garantirsi un ipersonno” (A: Galletta).
Il gruppo opera all’interno di una logica che pone l’interdisciplinarità e la multiculturalità intese come valore antropologico (D. Paparoni).
Tutto concorre a formare un’opera d’arte totale, capace di tradire ogni certezza, senza negare la storia dell’arte:
l’opera è un grande calderone capace di accogliere e dare uguale dignità a qualunque forma di comunicazione.
Privilegiano la pittura dei primi anni ’80, ma anche il Cubismo,il Minimalismo, Graffitismo, Matisse, Paladino, Rotella, i tramonti romantici come gli sfondi monocromatici di Rotko, con un certo retrogusto pop:
la loro caratteristica concettuale e stilistica è quella di decontestualizzare e ricontestualizzare.
La loro pittura non è mai rappresentativa e narrativa: è da leggere come un’esplosione dell’inconscio ed è criptica solo per chi non ne conosce le regole.
Figli del “postmoderno”, non hanno remore ad usare un linguaggio figurativo e accattivante, a guardare a dipinti di altri autori ed a utilizzarne frammenti in chiave strumentale, anche col vecchio espediente del “quadro nel quadro”: una figurazione che guarda alla pubblicità, alla tv, alle riviste di moda e alle loro immagini patinate.
La loro figura femminile è uno stereotipo, un “modulo” che riconduce l’opera ai loro autori.
Ma è anche un simbolo di continuità della vita e di progresso: ecco perché Dormice mette spesso, sullo sfondo, strumenti di guerra in contrapposizione alle sue fresche figure femminili.
Jan Fabre è uno dei più famosi artisti operanti in Belgio.
Presente alle Biennali di Venezia, Istanbul e San Paolo e a Documenta di Kassel.
La Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo ne ha recentemente celebrato l’attività con una retrospettiva “GAUDE SUCCURRERE VITAE. RALLEGRATEVI DI SOCCORRERE LA VITA. “
di oltre 200 opere e 10 film: un’esposizione scioccante a tratti morbosa, per un artista che non conosce limiti e regole.
Ogni mezzo e tecnica è usata per sperimentare ed esplorare il mondo, la scienza e le emozioni: teatro, arte, cinema, danza e scultura, dall’inchiostro di china alla penna biro, dal proprio sperma al proprio sangue.
La sua produzione risente della tradizione pittorica e dell’immaginario classico fiammingo di Bosch, Van Eyck, and Breugel, filtrato attraverso la sua sensibilità.
In un famoso saggio italiano le parole chiave usate per descrivere la sua produzione artistica sono “il labirinto” e “la bellezza”.
Il labirinto presuppone un viaggio, che può essere esterno a noi, anche interiore, alla ricerca di sè.
E del viaggio intrapreso da Fabre non ci sono un inizio e una fine.
Da sempre la sua l’attenzione è rivolta alla decifrazione del reale, ovvero della Natura e del segreto della sua Bellezza; Il linguaggio del cinema, fatto di movimento e tempo, è il mezzo perfetto per le immagini di Fabre.
C’è lentezza in De Schede (“Hé wat een plezierige zottigheid!”), velocità in Tivoli, ripetizione di gesti proposti all’infinito in “Zellfmorood?” o “De Zak”.
Nella produzione dal ’77 ad oggi , le immagini spiazzano, contengono le cifre della follia, dell’incubo, dell’angoscia e del sogno con cui l’artista invita a misurarsi.
Creazione e distruzione, vita e morte sono continuamente intrecciate, studiate e osservate.
I primi brevi e intensi film in bianco e nero ritraggono l’artista mentre compie azioni molto semplici , respirare, accendere un fiammifero, appoggiare una pistola alla tempia o coprirsi la testa con un sacchetto.
Successivamente mostrano analogie con le sue pièces teatrali quali ‘Body, body on the wall’ con il ballerino Win Vandekeybus.
Il suo interesse per il mondo degli insetti -suo nonno Jean-Henry era un famoso entomologo – insieme al corpo ed alla guerra lo portano ad utilizzare gli stessi come metafore dell’esistenza umana.
Tutta la sua produzione scultorea più conosciuta è costituita da elementi appartenenti al mondo degli insetti o degli animali, fino all’eclatante intervento permanente sul soffitto della sala degli specchi del palazzo reale di Bruxelles , che ha decorato con il guscio di almeno un milione di scarabei.
I film, dai più recenti ai più vecchi, contengono le nervature della sua opera, con al centro il ciclo di nascita-vita-morte-rinscita.
In L’INCONTRO – Een Ontmoeting/Vestrecha- Fabre costruisce una situazione grottesca e visionaria durante la quale, sul terrazzo di un grattacielo di New York, conversa con l’artista russo Ilya Kabakov (il padre del Concettualismo moscovita), vestiti l’uno da scarabeo e l’altro da mosca, sulle analogie che intercorrono tra il mondo degli insetti e il sistema dell’arte e sul ruolo dell’arte nelle società umane e i sistemi politici totalitari.
Una provocazione verso il mondo canonizzato dell’arte che si ritrova anche nella serie di disegni “Historische Wonden” (Ilad of the Bic-Art), dove le riproduzioni di quadri celebri di pittori come Rembrandt, Goya e Cézanne sono stati ricoperti con l’inchiostro della penna biro, lasciando intravedere solo alcune parti.
Ma grande arte ritroviamo nelle sue sculture, tanto poetiche quanto intriganti, non ultimo il “Cadavere conditus”, inquietante presenza alla Certosa di Padula.
CHIARA LAMPUGNANI (Milano, 1974. Vive e lavora a Milano)
Laureata in Architettura Disegno Industriale presso il Politecnico di Milano, si è pecializzata in Trattamento Artistico dei Metalli al Centro TAM di Pietrarubbia
(Urbino) come allieva di Arnaldo Pomodoro.
Dopo le prime esperienze vicine all’artigianato – ha iniziato realizzando arazzi – ha iniziato a sfruttare un medium, il neon, partendo da un’ideazione squisitamente mentale, elaborata e schematizzata con l’ausilio del computer, poi “messa in opera” da tecnici specializzati .
Materiale caro all’arte povera e concettuale, da Fontana a Merz, da Kosuth a Naumann, il neon giunge a caratterizzare lavori distanti e con esiti formali differenti, sposandosi spesso felicemente con materiali poveri che “riscaldano” l’effetto freddo dell’algida luminescenza.
Diversa è la concezione dell’artista, per lo stretto collegamento che la sua opera ha con aspetti dell’inconscio e della fantasia: i suoi “oggetti fragili” rappresentando l’illusione, seppure fisicamente presente, dell’immaginario.
Ci invita a salire sulla scala-neon, ad accomodarci in giardino sulla sedia-neon accanto al tavolo-neon, a pedalare sul triciclo-neon, tra il verde o sospesi nell’aria, accompagnati da melodie avvolgenti.
L'”oggetto-lucciola” (G. Caroppo) è un oggetto archetipo con cui Lampugnani risveglia, installandola di volta in volta in un differente contesto, che ne giustifica sempre e nuovamente il significato, quello che il nostro desiderio di uno spazio onirico cerca; ed è destabilizzante, in quanto i suoi oggetti, realizzati normalmente in dimensioni reali, sono comunque solo illusioni.
Lo “spazio onirico” in cui ci porta Lampugnani è generato dalla forza evocativa della sua arte, priva di falso intellettualismo, aperta all’illusione che diviene buona, reale e “materializzata”.
L’amplificazione dell’immaginario infantile -al quale si ascrive anche il triciclo in mostra-è il tema inconscio al quale spesso preferisce ispirarsi, ed è incarnato dal recente elefante alto 4 m.: un’allucinazione luminosa dalle forme elementari e dinamiche.
DANIELA MONTANARI( Varese, 1971. Vive e lavora a Milano).
Laureata in Architettura presso il Politecnico di Milano,
specializzata in Tutela e Recupero del Patrimonio Storico e Architettonico,
ha abbandonato la progettazione per dedicarsi totalmente all’arte pittorica e grafica.
Il ritratto iperrealista è la sua “buona” ossessione.
Raffigura in primissimo piano volti giovani o segnati dal tempo, parzialmente in ombra.
Lo sguardo fisso, quasi vitreo, ferma un momento e rende quell’occhio immobile particolarmente inquietante, mentre la morbidezza delle labbra e dei particolari anatomici cedono un soffio di vita.
Accostabile alle esperienze scultoree di grande successo internazionale dell’australiano Ron Mueck,
virtuoso capace di trasformare silicone crudo in pelle vera o a quelle più recenti della Piccinini:
iperrealismo di denuncia quello dell’artista ammirato per il suo Boy alto cinque metri,
gioco ambiguo e raccapricciante quello della scultrice,
introspezione psicologica e comunicazione per la Montanari
e unicità nel medium pittorico: il pastello.
L’isolamento e il “congelamento”,
caratteristiche che spesso allontanano lo spettatore nell’iperrealismo americano,
creando un mondo parallelo con un effetto trompe-l’oeil
e fermate con una tecnica descrittiva dei particolari fotografati negli angoli del quotidiano,
vengono qui riscaldati con un abile e dosato uso di sottilissimi segni del pastello,
simili alla tecnica del rigatino utilizzata nel restauro per colmare le lacune della pellicola pittorica.
La manualità è fondamentale e la rappresentazione dei soggetti ritratti è talmente vicina al reale,
quanto trasmette una sensazione a volte di fastidio,
derivata soprattutto dal gigantismo esasperato dei volti raffigurati.
Evidentemente padrona della cultura classica
che la rende capace di generare una luce radente e d’effetto,
giunge ad una “verità” tutta italiana e ad un colto contrasto da moderna caravaggesca.
Attualmente si dedica anche alla tecnica ad olio, in dipinti sempre in grandi dimensioni,
che le permette una maggiore meticolosità e rapidità nella rappresentazione dei suoi soggetti,
dai quali ha eliminato qualsiasi simbolismo dei particolari aggiunti,
lasciando parlare solo minime espressioni dei volti, rughe, sguardi, “istanti” di vita.
ALESSANDRO PALMIGIANI (Isola del Liri (fr), 1969. Vive e lavora a Roma)
Laureato presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, lavora nella capitale in uno studio di grafica.
Inizia come decoratore, di cui mantiene lo status per interni ed illustrazioni, per approdare alla scenografia e quindi alla computer grafica.
Come “inventore di immagini” è lecito affiancarlo ad una delle voci ritenute da McCormick tra le più oneste e profondamente umaniste dell’arte contemporanea, il Nick Waplington, creatore dei “Luoghi.com”, web designer dallo stile essenziale, efficace, spassoso, fastidioso ma sempre attraente.
Palmigiani sposa satira e ironia per toccare il campo del tragico e del contemporaneo, ma sa essere anche leggero e patinato.
D’effetto, come un altro grande artista multimediale, Anur, con il suo grido di dolore per la Bosnia-Erzegovina nel ciclo “Human Condition”, in una delle sue prime opere di grafica digitale “Funghi velenosi” Palmigiani rappresenta con lucido sarcasmo gli errori e gli orrori dell’uomo commessi nel corso del secolo scorso, contro l’umanità e se stesso.
Sceglie il fungo quale emblema dell’involuzione e della mancanza di coscienza, sottoposto ad altrettanti differenti “trattamenti”: tre tragedie immani, attimi della nostra storia che hanno avuto conseguenze devastanti e incontrollabili come il fuoco dalla bomba atomica ad Hiroshima, la distruzione più subdola perpetrata dalle radiazioni provocate dal nucleare a Cernobyl e la tragedia di New York, sintetizzata nell’attimo in cui il fungo è spaccato in due, con i detriti tra le due porzioni a sottolineare l’immediatezza e la contemporaneità .
I suoi lavori sono stati pubblicati in riviste come ” Computer Arts” , “Computer Graphics e Publishing”, ” Fotocomputer” ” Grafica e Digital Foto” ” Web Designers Experimenst” di Franco Lanfredi” e ” Grafica e Disegno” ed hanno illustrato saggi e romanzi.
RAFAEL PAREJA MOLINA (Trento, 1972 – Vive e lavora a Roma)
Manualità e tecnologia.
Da un primo confronto con il pubblico (quello definito “coatto”) come graffitista, durante il soggiorno a Parigi, trasferisce il suo segno istintivo sui muri:
dalla bomboletta e dal suo rapporto quasi feticista, passa allo spray, strumento con cui è possibile realizzare in maniera veloce dipinti di grandi dimensioni.
Per le analogie con gli effetti di luce, per la freschezza dell’immagine e l’immediatezza del messaggio.
la “fascinazione” del muro la riporta facilmente sul monitor.
È così che nascono i primi lavori, dominati spesso dalla scansione a dittico, da ricondurre concettualmente a Rauschenberg e realizzati dopo la frequenza all’Accademia di Bologna.
Figlio di un regista, assorbe fin da piccolo la cultura paterna e il fascino dela filmografia più raffinata: accosta così il disegno, la fotografia e alcune immagini, elaborate o meno, assunte dal web; “con un tratto elettrico e raffinato, interiore e complesso raffigura le sue zoografie, mescolando microbiologia e dettagli antropomorfi, disegno e campionamenti mediatici, rimandi al vero con flash di fantasia. E descrivendo abissi visionari e deliri anatomici” .
Questo apparente interesse ossessivo per la biologia, lo porta a guardare “dentro”, ad offrire una visione “interna” ed “interiore” di qualsiasi oggetto, affermando di provare fastidio per le immagini “belle” , con la predilezione ad indagare i lati oscuri della mente, le perversioni, le pulsioni incontrollabili
che la razionalità, la geometria, l’analisi cercano di contenere.
Sceglie perciò di rappresentare forme filamentose, dettagli fisici, corpi compressi, estasi mute, mediate dal tratto digitale che le priva dell’istintualità legata alla corporeità, per trasferirle su un piano più mentale.
“P.M. disvela le spinte tra cosa siamo e quel che la mente produce mentre distilliamo adrenalina.
Indaga coscienza e incoscienza del computer.
Sottolinea la bellezza di una tecnologia acida, postgraffitista eppure “leonardesca” nello spirito caldo (…) tra un manualismo che diventa digitale e un’elettronica condotta alla sua essenza.” (G. Marziale)
LUIGI PRESICCE Porto Cesareo (Le ),1976 . Vive e lavora a Milano.
Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Lecce, partecipa a numerose video rassegne e nel 2002 realizza precocemente importanti personali dal titolo Philophobia -intesa come paura degli altri, difficoltà di relazione, isolamento voluto- accompagnata una piccola storia di un bambino di nome Luigi, scritta da Luca Beatrice: ” un testo anomalo, un po’ fuori dagli schemi…Lui ha scritto di un bambino di nome Luigi ma quel bambino in realtà è lui, quella forma di philophobia è la sua, non la mia.
Ogni forma di philophobia ha un suo bosco, una prigione di alberi che ingabbia mostri, segreti, realtà indicibili …tra quegli alberi si nascondono tutte le paure che ci portiamo dentro.”.(L.P.).
Le sue prime opere sono “lavori aperti”, si muovono tra video e pittura, e la componente del racconto, anche letterario, risulta fondamentale per la comprensione dell’opera.
Il teatro è una delle fonti principali della sua arte, un punto di riferimento costante, per l”idea stessa di maschera.
“Il clown in sé è una figura molto triste, il più delle volte è costretto a dissimulare la tristezza che si porta dentro.
Anche per Philophobia ho trasfigurato alcuni volti con delle maschere da maiale, lo stesso Mario Banana il protagonista di Introverso, indossa una maschera da scimmia; il non voler mostrare quello che si ha dentro è una forma di philophobia” (L.P.).
Nei dittici di Philophobia, i ritratti di bambini come straniti sono affiancati a degli scenari molto inquietanti, delle visioni di boschi, provocando una forte tensione emotiva.
“Ho scelto di congelare la narrazione perché penso sia molto più terrificante il non sapere cosa di preciso sia accaduto, pur avendo coscienza che qualcosa è accaduto.
Un ipotetico mostro è ancora più terrificante se non ne conosci le sembianze.
L’infanzia è il momento in cui si determina la personalità di un individuo, questa è la chiave di lettura di tutta la mia opera. (L.P.) Rispetto alla pittura ha un approccio iperrealista sebbene stia attuando una variazione nella tecnica di esecuzione che gli possa permettere una pittura che sembra crearsi da sola, una pennellata estremamente netta e fluida, dove l’acqua completa quasi involontariamente la resa, creando aloni, sfocature, sfumature. Afferma: “vorrei riuscire a materializzare nella pittura quello che è il processo mentale del mio lavoro, che è estremamente aperto…come un principio di espansione infinito”.
ROSY ROX Napoli, 1976. Vive e lavora a Napoli
Diplomata in Pittura all’Accademia di BB.AA. di Napoli, ha frequentato nel 2001 il Corso superiore di Arti Visive alla Fondazione Antonio Ratti di Como
(“vititing professor” Ilya Kabakov), esponendo in via Farini a Milano.
La sua bellezza esplosiva, dolce e morbida, ne fa una donna- bambola anche nella vita, così come la bambola è la figura simbolo che ritroviamo nella prima fase della sua produzione di taglio fotografico, raccapricciante o comunque inquietante, sospesa tra reale rappresentato e finzione costruita, che offre una visione dualistica della personalità, artistica e non.
La bambola è l’elemento che lega la “donna” alla propria infanzia; la donna-bambola è un essere sospeso tra passato e futuro, ma connota anche l’iconografia della donna-oggetto.
L'”ombra-bambola” è la vera immagine della donna incarnata, suo tema ossessivo in equilibrio tra violenza, allucinazione, sogno e malinconia.
“Gli effetti devastanti della società malata sulla mente umana, mente e corpo costretti a convivere con le proprie visioni, ossessioni, depressioni, fobie…
e che creano allucinazioni di nuovi corpi terreni sui quali i confini tra realtà e immaginario divengono sempre più labili.
Uno stato mentale prodotto dal vivere sociale e che agisce direttamente su di esso; corpi come estensione di uno stato mentale.
Creazione di ibridi che nascono sia dalla visionarietà di un individuo sensibile, quanto da un mondo fantastico e infantile; ma che suscitano anche inquietanti interrogativi sulle possibili manipolazioni dell’ingegneria genetica sull’umanità, quanto sulle possibili evoluzioni che avrebbe potuto avere l’evoluzione della vita” (R.R.) Nel ciclo InterZone è stata notata per la sessualità poliandrica: i suoi personaggi creano le basi per una teratologia amorosa,
ed hanno sempre una connotazione sessuofobica o, al contrario, sensuale.
La paura e in contemporanea l’ammirazione per il mondo degli insetti, così come per le figure maschili che popolano le sue fantasie e ossessioni, creano nell’artista vere e proprie turbe psicologiche, che si ripercuotono sulle raffigurazioni: trasfigura i suoi uomini in cavallette, scarafaggi, grilli e si trasforma in musa -sirena, in assemblaggi e installazioni; immagini ingigantite col plotter e installate in vere e proprie piramidi che costituiscono dei templi innalzati a se stessa, bellezza che vede deformata e mutante. Crisalide attraente e insieme irragiungibile.
Nessuna separazione tra inconscio, scienza, realtà e allucinazione nel realizzare i suoi collages digitali in pelle umana, tanto vicini all’iperrealismo australiano, quanto memori del surrealismo, cromaticamente densi e kitch.
Come la sua strana ameba dalle forme primordiali: il Batteriocosmo.
ROXY IN THE BOX (Napoli, 1967. Vive e lavora a Napoli)
consergue la maturità artistica come grafica pubblicitaria, al secolo Rosaria Bosso.
Si specializza in “Fashion design” presso l’Accademia della Moda di Napoli nell’88 e in Affresco presso l’Istituto Edile di Bologna nel ’93.
Impegnata ecletticamente nella video-arte come nell’elaborazione d’immagine, dell’installazione come della pittura ad acrilico offre un’immaginario poliedrico e ironico affidato ad un uso del colore di gusto neo pop, dal segno nitido e dalle campiture piatte.
Diversamente da come oggi si preferisce procedere nell’uso delle tecnologie digitali, Roxy utilizza il computer come ausilio nella progettazione delle immagini, dapprima di atomosfera glamour, sulle quali interviene per virarne i colori e renderle fumettistiche e “plastificate”, per poi riportarle sulla tela in maniera assolutamente manuale, ad acrilico.
Le prime esperienze la vedono giocare sul doppio fronte della pittura correlata alla manipolazione dei prodotti di largo consumo, dalla “Nutella” ai detersivi in polvere, secondo una filosofia new-dada, opere nelle quali interviene sul pakacing creando simpaticissime allusioni ai dipinti alle quali le lega , come l’originale gruppo del coloratissimo travestito dai capelli blu , improbabile testimonial di una cioccolata spalmabile, la “Femmeniella”.
Con un intento satirico a sfondo sociale, ironizza così su ossessioni , abitudini, convenzioni, sentimenti, luoghi comuni quotidiani senza essere pedante, ma col solo fine di far riflettere, divertendo.
FRANCESCA SCAMMACCA (Lentini,Sr. 1974. Vive e lavora a Siracusa).
La ricerca dell’artista siciliana si muove tra pittura, grafica e fotografia.
Diplomata in pittura all’Accademia di BB.AA. di Catania nel ’98 segue seminari sulla Fotografia Contemporanea.
L’arte è denuncia senza tuttavia penalizzare la qualità espressiva e formale; “parla da sè”, non ha bisogno di letture intellettualistiche e critiche.
La sua ossessiva caratteristica è la ripetizione:
uno stesso soggetto a grandezza naturale “clonato” in tre, quattro tele senza supporto e da fermare alla parete con nudi chiodi o nastro adesivo da imballaggio.
La tecnica raffinata, è realizzata con un procedimento ad inchiostro e grafite.
Su ognuna appunta delle frasi standard di suo pugno, preferibilmente in lingua inglese, che concepisce come universalmente comprensibile; il soggetto appare come un ectoplasma verista, iperrealista ma sbiadito e le sue “vittime” sono spesso ritratte dalla sua cerchia familiare.
Grandi “sudari” che non hanno bisogno di interpreti o mediatori, malinconici sguardi senza nome, “offerti” dall’artista al pubblico crudamente e senza inutili orpelli ideologici o decorativi, mantenendo tuttavia un messaggio forte e immedato, spesso raccapricciante.
È UN CONTINUO FISCHIARE DI ROTAIE…
Quattro “scatti da autopsia” per una rappresentazione tutta mentale di una giovane donna alla quale si sovrappone la sagoma di un neonato.
Una “maternità”, con i piedi “forse” macchiati di sangue.
Allusione ad un “rifiuto” reale o solo pensato, desiderato, imposto.
URAKEN Castelvetrano (Trapani, 1978. Vive e lavora a Milano)
Diplomato in “Comunicazioni multimediali” alla scuola superiore sperimentale “Albe Stainer “di Milano, specializzatosi in Arti grafiche, lavora come grafico, fotoritocchista e impaginatore free-lance per Magazine come K-Code e All Music, dove si firma Uraken.
Le “comunicazioni multimediali” fanno parte della sua “sfera attitudinale di sopravvivenza” quella che gli formerà la personalità, come afferma, insieme alle arti marziali -il Karate Shotokan, frequentato a livelli agonistici dall’ ’85 al ’97 la musica – studia chitarra classica e jazz – e i viaggi che lo spingono in Spagna, Austria e Francia, dove è ospite di Sophi Crumb, figlia del fumettista underground Robert Crumb.
Lavora come fotografo con Roberto Dri approfondendo il tema del ritocco fotografico; entrato a far parte della redazione di RCS Corriere della Sera, svolge la professione del web-designer, incominciando a studiare al DAMS di Bologna “Scienze e tecnologie del cinema, della fotografia e della televisione.”
Punto cardine dei primi lavori la “creazione come liberazione”.
Trasferisce il più precisamente possibile il suo disagio nella creazione: mediante programmi per PC di modellazione solida 3d, costruisceelementi essenziali dei quali dispone in principio; similmente agisce per le immagini bidimensionali con quelli di vettorializzazione.
Il fotoritocco, poi, per assemblare i singoli elementi creati e curarne il colore, uniformando luci ed ombre, rielaborando foto scattate con una reflex e successivamente digitalizzate, tagliate, modificate per la composizione dell’immagine finale, che si ispira a tagli fotografici e inquadrature cinematografiche o, nella disposizione dei soggetti, ai fumetti, generando immagini complesse.
Riunisce, come in una scarica da elettroshok, tutte le sensazioni, i ricordi, i brividi, le emozioni, le malinconie, le tragedie, le ingiustizie, i colori forti e quelli più tenui, le paure dell’inconscio e quelle offerte da una porta socchiusa…
quello che attraversa il nostro ed il suo io, in un’unica, molteplice immagine “sentimental-sensoriale”.
In bilico tra filosofia e grafica mai didascalica, accompagna le sue creazioni digitali con originali scritti autobiografici, citazioni, pensieri, auto-analisi.
Elaborazione digitale da Van Gogh Still Life with Bible (Natura morta con bibbia) 65.7 x 78.5 cm.
Nuenen: October, 1885 – Amsterdam: Van Gogh Museum
Natura morta con Bibbia è un dipinto che ha attirato su di se interpretazioni simboliche in gran numero. Eseguito nell’ottobre del 1885–non molto tempo dopo la morte del padre di Vincent, un ministro di Culto – con il quale Vincent ancdò sempre più estraniandosi; un conflitto dovuto in parte alle loro contrastanti personalità, in parte al crescente disprezzo di Vincent per le convinzioni religiose del padre.
Di conseguenza, questo dipinto sottintende un chiaro significato simbolico: la Bibbia rappresenta il padre di Van Gogh e la religione in generale, e il piccolo libro giallo, La Joie de Vivre di Zola, da l’idea di essere un’ingegnosa asserzione della preferenza di Vincent per i soggetti di Zola rispetto a quelli della Bibbia.
NATALINO ZULLO Isernia, 1939. Vive e lavora a Napoli
È docente di “Tecniche del marmo” all’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Inizia ad esporre a Roma negli anni ’60 e successivamente a numerose collettive nazionali e internazionali, spesso incentrate sul tema dell’ambiguità e del mistero (Disidentico, Il bosco sacro dell’arte) e più recentemente, alla Certosa di Padula – nell’estemporanea ideata e curata da Bonito Oliva “Le opere e i giorni”- installa complesse sculture realizzate in materie plastiche, ora opache ora trasparenti, sorrette da un’anima di ottone e dipinte con colori acrilici, tempere e smalti, grandi bulbi oculari con i quali cui vuole sottolineare la volontà di guardare “oltre”, di guardare il mondo con gli occhi degli altri e sostituirsi agli occhi degli altri per guardare se stesso.
Particolare forza e suggestione assumono queste imponenti “visioni” al buio.
La sua ricerca, infatti, si muove al di là della dimensione dello sguardo e della semplice riproduzione visiva e il suo “occhio”ha una doppia polarità, con un elemento di introversione ed un altro di estroversione.
La scultura è caratterizzata da un linguaggio fortemente espressionista ed è generata da una pulsione dapprima destrutturante e poi strutturante, che produce un'”opulenza visiva” (A. Bonito Oliva) arricchita da una dimensione interiore.
Le sue sculture prediligono personaggi al limite della fantascienza, “mostri “dapprima realizzati in bronzo e smalto, più di recente in resina e materiali plastici, smarrendo il senso della proporzione e della simmetria, così come rompono i codici del perbenismo e delle convenzioni, giungendo a soluzioni scandalose e di rottura con le convenzioni di ogni tipo, anche visive.
Lo sguardo dell’artista tira fuori così immagini allucinatorie, cicatrici, nodi e ferite, secondo motivi di matrice gotica e dolente trasfigurati in una istanza barocca, vitale e positiva, Le figure sono intrise di grottesca androginia e manifestano esplicito e reciproco orrore, come la figura dell’ermafrodito, simbolicamente densa, anch’essa emblema di situazioni “doppie”.